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Febbraio 2019

Whatsapp offendere su chat di gruppo è reato

Occorre presentare la massima attenzione alle comunicazioni nelle chat comuni di WhatsApp che sfociano in vere e proprie offese.

Tali insulti rientrano nel grave reato di diffamazione, perché a prenderne visione non sono solamente la persona offesa e l’autore, ma tutti gli altri partecipanti alla chat.

Secondo la Corte di Cassazione, se il messaggio viene inoltrato a destinatari molteplici e diversi, per esempio attraverso la funzione di forward o a gruppi di Whatsapp, su Twitter o Facebook, si tratta di diffamazione aggravata dal mezzo di pubblicità (art. 593 del Codice penale), con competenza del tribunale.

Il fatto che il messaggio sia diretto ad una cerchia di fruitori, i quali, peraltro, potrebbero venirne a conoscenza in tempi diversi, fa sì che l’addebito lesivo si collochi in una dimensione ben più ampia di quella interpersonale tra offensore e offeso. Di qui – conclude la Cassazione – l’offesa alla reputazione della persona ricompresa nella cerchia dei destinatari del messaggio”.

 

Per la Suprema Corte non si tratta di semplici ingiurie, che sono depenalizzate. “Vengono lette anche da persone terze, c’è lesione della reputazione”. I giudici si sono espressi in merito a una lite  fra ragazzini. Uno di loro aveva scritto un messaggino carico di epiteti volgari su una compagna. La Corte è intervenuta così su ricorso dei genitori di un tredicenne. All’interno della chat, scrive l’Ansa, si era consumata una guerra tra fazioni di alunni di una scuola in provincia di Bari. Il ragazzino, parlando in difesa di una compagna, aveva scritto un messaggio carico di epiteti volgari, in cui accusava la persona offesa, una coetanea, di essere la responsabile dell’allontanamento dell’amica dalla scuola.

La Cassazione si è quindi espressa richiamando anche precedenti pronunce su posta elettronica e mailing list: “L’eventualità che tra i fruitori del messaggio vi sia anche la persona nei cui confronti vengono formulate le espressioni offensive”, spiegano i giudici, “non può indurre a ritenere che, in realtà venga, in tale maniera, integrato l’illecito di ingiuria, piuttosto che il delitto di diffamazione”, evidenzia la Corte.

 

La stessa situazione si ha con la condivisione di uno screenshot. Elemento cardine della norma è la reputazione ed è ciò che si vuole tutelare, quindi l’invio dello screenshot su di una chat di whatsapp a titolo informativo non costituisce reato. Differentemente se la condivisione avviene, al fine di denigrare e offendere l’altrui considerazione, la questione muta totalmente, rendendosi concreto il reato di cui all’articolo 595 del codice penale.

Ugualmente su Facebook, si deve avere una certa prudenza quando si decide di pubblicare uno screenshot. Difatti se l’animo di chi condivide il post è di ledere l’altrui reputazione, diffondendo notizie che arrechino danno all’individuo, si verificano le condizioni di cui sopra, incorrendo nel reato di diffamazione.

 

Gli Ermellini hanno evidenziato che «sebbene il mezzo di trasmissione/comunicazione adoperato consenta in astratto anche al soggetto vilipeso di percepire direttamente l’offesa – si spiega nella sentenza – il fatto che il messaggio sia diretto ad una cerchia di fruitori, i quali, peraltro, potrebbero venirne a conoscenza in tempi diversi, fa sì che l’addebito lesivo si collochi in una dimensione ben più ampia di quella interpersonale tra offensore e offeso. Di qui – conclude la Cassazione – l’offesa alla reputazione della persona ricompresa nella cerchia dei destinatari del messaggio» (Sentenza Corte di Cass. 7904/19).

 

Come difendersi

I social network sono diventati l’ambiente virtuale più frequentato al mondo: l’espressione di un pensiero o opinione racchiude però insidie e conseguenze, anche di natura penale, che a volte vengono ignorate.

In questi casi, la prova più evidente della diffamazione è proprio la stessa conversazione che può essere salvata dall’utente all’interno del proprio cellulare. È altresì opportuno valersi della prova testimoniale di uno dei componenti la conversazione che possa dichiarare di aver letto e, quindi, partecipato alla conversazione.

La querela andrà depositata presso la stazione dei Carabinieri o direttamente in tribunale presso gli uffici addetti a ricevere querele e denunce. A quel punto il PM avvierà le indagini per le quali potrebbero essere necessari sei mesi.

 

Affidabilità della prova processuale della chat di whatsapp

Per i giudici della Suprema Corte, la registrazione delle conversazioni che avvengono sulla più nota app di messaggistica istantanea possono ben rappresentare la memorizzazione di un fatto storico, dalla quale è possibile disporre a fini probatori.

La Corte di Cassazione sottolinea infatti che la chat su WhatsApp è una prova documentale che ha piena legittimazione dall’art. 234 del codice di procedura penale, che contempla in esso la possibilità di acquisire in giudizio anche documenti che rappresentano fatti, persone o cose, mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo.

Se quanto sopra è noto, lo è altrettanto il fatto che la trascrizione riveste una mera funzione di riproduzione del contenuto della principale prova documentale, con la conseguenza che per poter utilizzare la trascrizione in sede processuale sarà necessario acquisire il supporto che la contiene. Solamente così facendo, infatti, sarà possibile controllare l’affidabilità della prova.

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LEGGI LA SENTENZA:

Corte di Cassazione
sez. V Penale, sentenza 17 gennaio – 20 febbraio 2019, n. 7904
Presidente Pezzullo – Relatore Scordamaglia
Ritenuto in fatto
  1. Nell’interesse di Co. Al. è proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza del Giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale per i minorenni di Bari del 18 gennaio 2018, che ha dichiarato non luogo a procedere nei confronti di Co. Al., indagato per il delitto di cui all’art. 595 cod. pen., trattandosi di persona non imputabile perché minore degli anni quattrodici al momento del fatto.

A sostegno della decisione assunta, il giudice censurato ha escluso che dagli atti d’indagine emergesse l’evidenza della prova richiesta ai fini dell’invocato proscioglimento nel merito del minore, atteso che il tenore dei messaggi a questi riferibili, versati nella “chat di un ‘gruppo whatsapp’ cui egli partecipava, non potevano dirsi ‘ictu oculi’ privi di valenza offensiva per la reputazione di altra minore.

  1. Della sentenza impugnata è chiesto l’annullamento, denunciandosi:

– il vizio di violazione di legge, in relazione all’art. 234 cod.proc.pen., per essere inutilizzabili le trascrizioni delle conversazioni effettuate tramite ‘whatsapp’ non essendone stato acquisito il relativo supporto, il quale solo costituisce la prova documentale delle conversazioni medesime;

– il vizio di violazione di legge, in relazione all’art. 595 cod. pen., la situazione di scambio comunicativo che viene in rilievo in una ‘chat’ di ‘whatsapp’ non integrando il delitto di diffamazione, ma l’illecito civile di ingiuria;

– il vizio di violazione di legge, in relazione all’art. 599, comma 2, cod. pen., e il vizio di motivazione, nella parte in cui il giudice censurato aveva escluso che l’allontanamento di una delle minori partecipanti alla ‘chat’ dalla scuola, determinata da contrasti con la minore vittima delle espressioni offensive, non integrasse il fatto ingiusto altrui suscettibile di innescare la reazione degli autori del reato rilevante quale causa di loro non punibilità.

Considerato in diritto

Il ricorso è infondato.

  1. Il primo motivo è inammissibile per aspecificità, perché omette di indicare l’incidenza dell’eventuale eliminazione dell’elemento di prova ritenuto inutilizzabile – nel caso di specie le trascrizioni delle conversazioni “whatsapp” -ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”: ciò in quanto, secondo il magistero di questa Corte, gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento (Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016 – dep. 20/02/2017, La Gumina e altro, Rv. 269218; Sez. 3, n. 3207 del 02/10/2014 – dep. 23/01/2015, Calabrese, Rv. 262011; Sez. 6, n. 18764 del 05/02/2014 – dep. 06/05/2014, Barilari, Rv. 259452).

Indicazione tanto più necessaria nel caso al vaglio, posto che è lo stesso ricorrente a dare atto, nel corpo del motivo di ricorso, dell’esistenza, nel compendio probatorio, della stampa dei messaggi di contenuto offensivo riferibili all’indagato, estrapolata dal ‘display’ di un telefono cellulare nella disponibilità della persona offesa, certamente utilizzabile alla stregua di prova documentale ai sensi dell’art. 234 cod.proc.pen., che consente «L’acquisizione di scritti o altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia o qualsiasi altro mezzo» e della quale non è disconosciuta la genuinità.

  1. Il profilo di doglianza che deduce l’inconfigurabilità del delitto di diffamazione, attesa la partecipazione della destinataria delle offese alla “chat’ di ‘whatsapp’, ricorrendo, piuttosto, l’illecito civile di ingiuria, deve essere affrontato assumendo a parametro interpretativo i principi enunciati da questa Corte in tema di diffamazione commessa mediante ‘e – mail’ o mediante ‘internet’.

Nelle pronunce in materia si è, infatti, argomentato nel senso che la eventualità che tra i fruitori del messaggio vi sia anche la persona nei cui confronti vengono formulate le espressioni offensive non può indurre a ritenere che, in realtà, venga, in tale maniera, integrato l’illecito di ingiuria (magari, a suo tempo, sub specie del delitto di ingiuria aggravata ai sensi dell’art. 594, comma 4, cod.pen.), piuttosto che il delitto di diffamazione, posto che, sebbene il mezzo di trasmissione/comunicazione adoperato (‘e-mail’ o ‘internet) consenta, in astratto, (anche) al soggetto vilipeso di percepire direttamente l’offesa, il fatto che messaggio sia diretto ad una cerchia di fruitori – i quali, peraltro, potrebbero venirne a conoscenza in tempi diversi -, fa si che l’addebito lesivo si collochi in una dimensione ben più ampia di quella interpersonale tra offensore ed offeso (Sez. 5, n. 44980 del 16/10/2012, P.M. in proc. Nastro, Rv. 254044; Sez. 5, n. 4741 del 17/11/2000, Pm. In proc. Ignoti, Rv. 217745): di qui l’offesa alla reputazione della persona ricompresa nella cerchia dei destinatari del messaggio.

Nel caso al vaglio, peraltro, dallo stesso tenore dei messaggi offensivi siccome riportato in sentenza: «Si vabbè non se ne deve andare lei per colpa di una Troia Putt(..)» emerge come la minore parte lesa del reato fosse estranea allo specifico contesto comunicativo, nel quale erano coinvolti i soli minori indagati dialoganti tra loro.

  1. Il secondo motivo di ricorso non tiene conto dello statuto probatorio della pronuncia di proscioglimento nel merito adottabile ai sensi dell’art. 129, comma 2, cod.proc.pen.. Se, infatti, il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen. soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di “constatazione”, ossia di percezione “ictu oculi”, che a quello di “apprezzamento” (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244274), l’approfondimento richiesto ai fini della verifica del ricorrere, nel caso al vaglio, della causa di non punibilità di cui all’art. 599, comma 2, cod. pen., è incompatibile con l’evidenza” richiesta dalla norma dianzi evocata, che presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara, manifesta ed obiettiva da rendere superflua ogni dimostrazione (Sez. 2, n. 9174 del 19/02/2008, Palladini, Rv. 239552).
  2. S’impone, pertanto, il rigetto del ricorso. In caso di diffusione del presente provvedimento occorre omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 D.Lgs. 196/03, tanto essendo imposto dalla legge.

P. Q. M.

Rigetta il ricorso.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 d.lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge.

 

 

 

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