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Marzo 2019

Non spetta assegno all’ex moglie “scansafatiche”

Emblematica è la  sentenza  del Tribunale di Treviso che consolida l’orientamento già espresso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 11504/17, la quale non prevede corresponsione di assegno divorzile al coniuge economicamente autosufficiente.

 

È ormai pacifico che rispetto all’assegno divorzile non può esservi un automatismo legato al mantenimento di uno “status” e di un tenore di vita. Insomma, il matrimonio, nel caso il coniuge sia benestante, non si può considerare una vincita alla lotteria, secondo quanto affermato dal tribunale. Quindi se c’è inerzia da parte di chi richiede l’assegno, il giudice non può riconoscerlo: diventerebbe una rendita parassitaria.

Nella fattispecie esaminata dal tribunale di Treviso, sostengono i giudici, la ex moglie, 35 anni, non ha mai contribuito al patrimonio né cercato un lavoro. Anzi,  vi erano stati diversi rifiuti a cercare un posto di lavoro. E se non ha mai trovato un’occupazione, ciò é solamente colpa della sua “inerzia”. Ebbene, secondo il tribunale di Treviso, se l’ex moglie è una “scansafatiche non ha diritto all’assegno di mantenimento.

I giudici sono stati intransigenti nel respingere la richiesta avanzata dalla  donna per ottenere l’assegno divorzile di 1.900 euro al mese. La signora già percepiva, in conseguenza della separazione, un assegno di euro 1.100 mensili da oltre un anno dal suo ex marito. Ma  richiedeva, in fase di divorzio,  un assegno più consistente. Il collegio, per tutta risposta,  ha stabilito che non le spettassero nemmeno i 1.100 euro al mese percepiti fino ad allora.

La donna – di origini sudamericane –  aveva raccontato come l’amore con il suo ex marito fosse sbocciato lontano dall’Italia e che i due si erano conosciuti durante uno dei tanti viaggi all’estero dell’uomo. Un colpo di fulmine culminato con il matrimonio nel 2007. L’ unione era entrata in crisi dopo una decina d’anni. La ex moglie, nella causa di divorzio, rivendicava l’assegno di Euro 1.900,00, in quanto aveva sempre seguito il marito nei suoi spostamenti lavorativi ed era stata costretta ad abbandonare il suo paese di origine pur di stargli vicino. In Italia aveva studiato all’università, ottenendo la laurea triennale in Economia. Poi era arrivato anche il primo lavoro: segretaria in uno studio professionale. La donna ha raccontato di essersi licenziata perché i tempi lavorati della coppia non coincidevano e non riusciva a stare vicino all’uomo che amava.

 

Avrebbe anche cercato un lavoro, ma il suo italiano incerto non l’ha aiutata.  Poi nel 2017 la crisi e la separazione con il Tribunale che obbliga il professionista a versarle 1.100 euro ogni mese. Ma nella causa di divorzio il giudice nega l’assegno. Non è stato sufficiente per la donna dimostrare che il marito fosse benestante  – in quanto percepiva uno stipendio superiore ai quattromila euro ed usufruiva dell’appartamento in affitto pagato dall’azienda per la quale lavora.

 

Il Tribunale di Treviso ha rilevato che il divario economico tra i due coniugi è effettivamente rilevante, ma a concorrervi vi sarebbe stata anche “l’inerzia” dimostrata dalla donna nel cercare un’occupazione. «Seppure la decisione di seguire il marito sia riconducibile a una scelta comune tra i coniugi – si legge nel dispositivo – non vi è alcuna prova che sia stata condivisa anche la decisione della signora di dimettersi dalle attività lavorative in cui era impiegata».«Ha un’età che le consente di reinserirsi nel mondo del lavoro e possiede un titolo di studio facilmente spendibile, a cui si aggiunge anche la conoscenza dello spagnolo quale lingua madre».  «Pertanto – prosegue la sentenza — deve ritenersi che possa reinserirsi nel mercato del lavoro ed è ravvisabile una sua inerzia colpevole nel reperire un’occupazione». Insomma, se finora non ha trovato un posto, è perché sarebbe una «scansafatiche». Quanto basta per far dire al giudice che «a prescindere dal divario reddituale e patrimoniale, non essendovi stato alcun sacrificio, non vi è alcun diritto a un assegno divorzile». L’ex moglie “fannullona” d’ora in avanti dovrà provvedere da sola a se stessa. E secondo i giudici ha tutti i numeri per farlo, a cominciare dalla giovane età e dal titolo di studio fino alla  conoscenza di due lingue, lo spagnolo e l’italiano che nel frattempo, vivendo stabilmente in Veneto da cinque anni, dovrebbe avere imparato. Dovrà ricominciare a spedire il curriculum, ma forse in modo più convinto di quanto fatto fino ad ora se è vero, come risulta dai documenti allegati alla causa, che prima del ricorso per il divorzio ne aveva spedito uno solo, nel 2014, appena arrivata in Italia. Tra l’altro non vi sarebbe stato “alcun apprezzabile sacrificio della signora, durante la vita coniugale, che abbia contribuito alla formazione o all’aumento del patrimonio“. Pertanto la signora dovrà mantenersi da sola.

 

La sentenza è stata accolta con favore dall’Associazione avvocati matrimonialisti e dal suo presidente Gian Ettore Gassani che definisce la sentenza “coraggiosa” e in linea con i principi della Cassazione, secondo cui l’assegno divorzile non è un atto dovuto. Per ottenerlo non è sufficiente che ci sia un divario economico tra i due ex coniugi. La legge impone al coniuge più debole di dare prova in giudizio di aver cercato un lavoro, di aver tentato di fare concorsi, di aver mandato curricula. Oppure  deve essere nell’ ”assoluta impossibilità di lavorare”.

Negli ultimi anni la Corte di Cassazione ha cercato di limitare la concessione indiscriminata dell’assegno di mantenimento al coniuge più debole. Ha fatto discutere e ha fatto scuola la decisione della Suprema Corte di archiviare il criterio del tenore di vita goduto durante il matrimonio che per quasi trent’anni è stato il parametro di riferimento per quantificare l’entità dell’assegno di separazione e di divorzio che il coniuge con il reddito più alto doveva versare all’ex partner economicamente più debole. Ora non è più così.

Forse quello che è mancato in questa sentenza, sicuramente  in parte condivisibile, è l’adeguamento al periodo storico in cui è difficile entrare in un mondo del lavoro che ancora si caratterizza per evidenti discriminazioni di genere e nel quale è, spesso, richiesta pregressa esperienza lavorativa.

 

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