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Il lavoratore va risarcito per i reiterati contratti a termine

Il nostro ordinamento prevede espressamente la conversione del contratto a termine ed il conseguente risarcimento del danno ai sensi e per gli effetti dell’articolo 32 della L. 183/2010

Va ricordato che la conversione del rapporto dà il diritto al lavoratore di riprendere il suo posto di lavoro e di ottenere il risarcimento del danno qualora ciò venga negato (Cass. civ., sez. un., n. 7471 del 1991). La giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di pronunciarsi in punto di conversione del contratto con clausola temporale nulla, sostenendo l’ inserzione automatica di clausole legali, ex art. 1419, c. 2, c.c., in sostituzione di clausole nulle per contrasto a norma imperative e rifacendosi alla giurisprudenza sul punto (Cass. civ., n. 3293 del 1983, confermata da Cass. civ., n. 19156 del 2005). Questa tesi ha ora trovato conferma in Cass. civ., 12985/2008, la quale, estendendo altresì la riflessione alla portata dell’interpretazione costituzionalmente orientata ed alle direttive comunitarie sul punto, ha insegnato che: “L’art. 1 del d.lgs. 368/2001, anche anteriormente alla modifica introdotta dall’art. 39 della L. 247/2007, ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo l’apposizione del termine un’ipotesi derogatoria pur nel sistema, del tutto nuovo, della previsione di una clausola generale legittimante l’apposizione del termine “per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”. Pertanto, in caso di insussistenza delle ragioni giustificative del termine, e pur in assenza di una norma che sanzioni espressamente la mancanza delle dette ragioni, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, nonché alla stregua dell’interpretazione dello stesso art. 1 del d.lgs. 368/2001 citato nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE (recepita con il richiamato decreto), e nel sistema generale dei profili sanzionatoli nel rapporto di lavoro subordinato, tracciato dalla Corte Cost. n. 210 del 1992 e n. 283 del 2005, all’illegittimità del termine ed alla nullità della clausola di apposizione dello stesso consegue l’invalidità parziale relativa alla sola clausola e l’instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (principio applicato in fattispecie di primo ed unico contratto a termine)”. In ordine alle conseguenze risarcitorie, va detto che nelle more è intervenuto l’art. 32, comma 5, della L. 183/2010 (c.d. Collegato Lavoro) il quale ha stabilito che: “Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della L. 604/1966”. La norma è stata dubitata di illegittimità costituzionale ma il Giudice delle leggi (sent. n. 303/11) ha escluso questa eventualità. Secondo la pressoché unanime dottrina, il legislatore, approntando il detto meccanismo, ha previsto una forma di indennità forfetaria, rispetto alla quale, dunque, non interferiscono i consueti canoni di accertamento e liquidazione del risarcimento danni, restandone superata anche ogni questione relativa all’aliunde perceptum e/o alla sinallagmaticità delle prestazioni, sollevate da Poste.

Ha avuto modo di precisare, infatti, la Cass. civ., n. 3056 del 2012 che in tema di risarcimento del danno per i casi di conversione del contratto di lavoro a tempo determinato, lo “ius superveniens” ex art. 32, commi 5, 6 e 7, della L. 183/2010 (applicabile nel giudizio pendente in grado di legittimità qualora pertinente alle questioni dedotte nel ricorso per cassazione) configura, alla luce dell’interpretazione adeguatrice offerta dalla Corte costituzionale con sentenza n. 303 del 2011, una sorta di penale “ex lege” a carico del datore di lavoro che ha apposto il termine nullo; pertanto, l’importo dell’indennità è liquidato dal giudice, nei limiti e con i criteri fissati dalla novella, a prescindere dall’intervenuta costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno effettivamente subito dal lavoratore (senza riguardo, quindi, per l’eventuale “aliunde perceptum”), trattandosi di indennità “forfetizzata” e “onnicomprensiva” per i danni causati dalla nullità del termine nel periodo cosiddetto “intermedio” (dalla scadenza del termine alla sentenza di conversione)” (fonte dritto.it)

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